Scritti

Scritti 

FESTA, LO SAVIO, ANGELI

Marisa Volpi

 

Un pomeriggio l’abbiamo trascorso con Festa, Lo Savio e Angeli: il lavoro dei tre giovani è assai diverso, ma molto simili ci sembrano la puntigliosità delle loro polemiche, la fiducia nelle loro ricerche, e una problematicità messa continuamente a fuoco dalla discussione. Ho ascoltato Lo Savio preferire l’architettura alla pittura e interessi scientifici a interessi letterari. Tutti indistintamente di ogni tendenza artistica esprimono il disagio, il dispiacere o comunque la constatazione neutra per l’indifferenza del pubblico e degli uomini di cultura alla loro ricerca.
Certamente Roma non offre da questo punto di vista un ambiente stimolante: rintracciare le ragioni della pesantezza paludosa nella quale affonda ogni tentativo di socialità culturale, non puramente mondana o affaristica, è molto difficile.  Ad una accidia spirituale, prodotta da secoli di praticismo e di tatticismo privi di ogni organicità politica viva ed europea, si aggiunge l’influsso della disgregazione intellettuale, che investe ormai tutte le sovrastrutture del mondo neo-capitalista occidentale. Da cui, aggiungiamo vengono colpite non solo le possibilità del pubblico, ma quelle degli artisti stessi, che conducono una singolare battaglia contro la strumentalizzazione schiacciante della vita dell’individuo, ora confondendosi con gli stessi risultati della strumentalizzazione ora ribellandosi per vie che raramente hanno la possibilità di valicare le buone intenzioni. Festa e Angeli si risentono per questo stato di fatto, Festa rifiuta di considerare proprie alla sua opera funzioni che egli chiama spettacolari, preferisce assimilarsi ad un complesso di ricerche a cui da il nome di «pittura industriale» e che comprendono l’industrial design, la segnaletica ecc. In qualche modo anche Lo Savio sembra su questa strada.

[DA «AVANTI» 29 Dicembre 1961]

 

 

Lettera di Tano Festa ad Arturo Schwarz

 

Caro Arturo,
dagli inizi del ’62 fino agli ultimi mesi del ’63 io ho costruito porte, finestre, persiane, armadi, specchi, pianoforti e degli obelischi che sono uguali a quello che sta in piazza del Popolo a Roma.
Per due anni mi sono espresso attraverso gli oggetti, la pittura la usavo solo per verniciarli, come farebbe un qualsiasi artigiano mobiliere.
All’inizio del ’62, passando per via due Macelli, vidi attraverso la vetrina di una libreria la riproduzione del quadro di Van Eyck I coniugi Arnolfini.
Osservando il quadro mi sembrò che il suo vero protagonista fosse il lampadario, perfettamente immobile, come se nulla, nemmeno un forte vento, potesse farlo oscillare.
Questo lampadario incombe sulle figure degli Arnolfini come qualcosa che sta a misurare la durata e quindi il limite delle loro esistenze. Pensai con malinconia che gli Arnolfini sarebbero scomparsi molto prima del lampadario, che da tutta quella scena sarebbero stati i primi ad uscirne, mentre gli oggetti sarebbero rimasti ancora per lungo tempo al loro posto, testimoni muti e impassibili delle loro esistenze. Questa intuizione della sopravvivenza dell’oggetto, della sua possibilità di essere protagonista, mi affascinò.

Da tempo guardavo gli oggetti di mobilio domestico che, essendo i più privati, sono quelli con i quali siamo più a contatto, verso i quali sveliamo gli atti e i gesti più intimi e segreti della nostra esistenza. All’inizio questo interesse era di carattere prevalentemente formale, ma più tardi cominciai a stabilire un rapporto di natura psicologica ed emozionale. In quei mesi a causa dell’asma soffrivo d’insonnia e avendo “paura del buio” mi limitavo ad accostare le persiane anziché chiuderle completamente, perché filtrasse dalla finestra la luce delle lampade della strada. In quei momenti tutti gli oggetti della stanza assumevano un valore insolito a quello normale e quotidiano. Pensai di ricostruire degli oggetti che fossero mutilati delle loro funzioni, oggetti che nella loro fisicità esprimessero una sottile inquietudine di fronte alla loro troppo facile e certa presenza, un senso di ambiguità e d’impotenza di fronte alloro essere fisico, inorganico, ottuso, e ancora un senso di mistero e d’impenetrabilità nelle loro fredde e scure geometrie.

Oggetti d’arredamento, come gli specchi e gli armadi, e quelli della relazione sociale e del rifiuto di essa, come le porte, le finestre, le persiane. Se li avessi dipinti, gli oggetti avrebbero assunto una forma che non è quella della realtà ma è quella appunto della pittura, dello stile, avrebbero assunto la forma del mio gusto, del mio fare, della mia capacità.

Infatti nel quadro di Van Eyck, proprio perché dipinto, l’oggetto, cioè il lampadario, è protagonista solo in relazione al concetto della sua ipotetica durata, ma è il quadro tutto e in particolar modo la presenza della figura umana a rendere quell’idea.

Se avessi usato degli oggetti trovati (vecchie porte, finestre, ecc.), questi, sia pure destituiti dalle loro funzioni, avrebbero conservato il loro senso d’uso, una particolare storia e un personale e privato logorio, tutte cose che non permettono (almeno a me) ulteriori interventi e intenzionamenti se non nell’indicazione che dà l’oggetto medesimo.
Ecco perché le mie persiane, le mie porte e gli altri oggetti sono completamente inutili, perché costruiti in modo che non potranno mai funzionare. Una mia porta è impossibile aprirla anche se è una vera porta, perché i suoi battenti non hanno né cardini, né maniglie, e resterà sempre ermeticamente chiusa.

Il mio pianoforte ha i tasti di legno che non si possono muovere, gli specchi dei miei armadi non riflettono nessuna immagine, gli armadi stessi non contengono nulla e dalle mie finestre non filtra nessuna luce.

Questi oggetti sono ricostruiti come noi li percepiamo non nel momento dell’uso ma in quello della contemplazione, sono solo delle apparenze, dei falsi oggetti. Ma è proprio da questo loro essere falsi che deriva l’espressione del modo in cui li ho percepiti.

… Adesso al buio posso vedere la porta, guardare l’armadio di fronte a me che mancando di uno sportello lascia scorgere una macchia biancastra che con la luce del giorno tornerà ad essere una camicia. Guardo ancora la porta chiusa e mi sembra che in quel momento dietro non ci sia più né il corridoio né tutto il resto della casa. Che se l’aprissi in quell’attimo vedrei solo un grande cielo azzurro pieno di nuvole bianche.

Cari saluti, tuo Tano.

 

 

INTERVISTE a Tano Festa

 

Galleria La Salita, Roma, aprile 1967

Da che data cominciano i quadri che esponi in questa mostra?
La mostra è fatta tutta con quadri della collezione di Liverani, a cominciare dal 1960, cioè da quelli monocromi con strisce di carta incollate, come quello lì tutto rosso, che furono esposti per la prima volta alla nota mostra dei cinque pittori fatta alla Salita appunto nel 1960. Agli inizi del 1960 ho cominciato a fare un tipo di lavoro che tuttora mi interessa, prima erano solo ricerche da apprendista.

Ma che cosa facevi prima del 1960?
Mi interessava la pittura americana, che si poteva vedere a Roma in quegli anni, Matta, Gorky, De Kooning e soprattutto Rothko che fu esposto in una mostra alla Tartaruga nel 1959, con Scarpitta e Kline. Nel 1960 ho cominciato a fare quadri monocromi con le strisce ma non pensavo più alla pittura degli altri, l’incentivo di questi quadri sono state le cose che c’erano intorno, che guardavo, la strada, le strisce pedonali, l’ambiente, gli oggetti. Poi ho cambiato in parte le strisce di carta con strisce di legno rigide come questi quadri rossi e neri, ma la materia non mi ha mai interessato in senso espressivo.

La mostra dei cinque pittori nel 1960 alla Salita fu presentata, se non mi sbaglio, da Restany. Che reazioni provocò nell’ambiente romano?
Direi di polemica ma anche di grande attenzione. Era un po’ l’uscita di una generazione con caratteri di rottura verso l’informale. La critica parlava sia di Nouveau Réalisme, che di Neocostruttivismo.

Questi quadri del ’61 e ’62 con strisce di legno, hanno sempre per supporto la tela?
Sì, ricoperta di carta, non è il supporto della pittura nel senso tradizionale ma un elemento solido del quadro.

C’è legno e carta ma anche diversi colori in questi quadri dove la striscia di legno crea dei riquadri rettangolari.
Si, c’è come un telaio o una riquadratura: attraverso la geometria sentivo che c’era dell’altro, forme semplici che alludevano anche a un modo di vedere la realtà: per esempio in questi quadri del1961 che si chiamano “Via Veneto”, “Via del Lavatore”, i colori semplici sono quelli dell’astrattismo classico, tradizionale, di Mondrian per esempio, ritrovati in un senso araldico e reale nello stesso tempo: il verde è quello di un semaforo e non di un prato, le stesure piatte e squillanti sono quelle che si trovano nei colori della pubblicità per le strade. Dopo queste forme geometriche ho cominciato nel 1962 a ricostruire i primi oggetti, le finestre, le porte, gli armadi, ancora collegati con i quadri del 1961; è come riconoscere le cose che si hanno più vicine, è chiaro che non mi sarebbe venuto in mente di guardare un cavallo. In queste cose vedevo un tipo di struttura, una specie di geometria applicata, quella dell’astrattismo divenuta reale in un oggetto che appare pieno di una carica emotiva.

Perché ricostruivi le finestre invece di dipingerle?
Perché non avevo nessun interesse all’objet trouvé ma invece all’oggetto ricostruito: se lo dipingi sei condizionato in partenza dal suo senso più ovvio, invece ricostruito diventa inservibile, diventa presente. I primi oggetti che ho fatto sono oggetti da interno, di arredamento, di mobilio; li ho ricostruiti perché appunto voglio rendere questi oggetti quando si percepiscono non nel momento dell’uso ma in quello della contemplazione, cioè mentre noi usiamo un oggetto non abbiamo coscienza dell’oggetto bensì acquistiamo coscienza del suo essere utile, invece l’oggetto ricostruito, finito, inutile, ti dà più un senso di una presenza. Dopo le finestre ho fatto i pianoforte e poi gli obelischi. Nel1964 ho fatto una serie di quadri su Michelangelo, non più oggetti. Comunque penso che il problema sia lo stesso, questa visione un po’ privata si allarga dalla casa alla piazza e al museo. Ti ricordi che ti parlavo di iconografia? Cioè io quando ho fatto questi michelangeli, fra l’altro non ero mai andato a vedere la Cappella Sistina, erano cose profondamente legate a Roma, al tipo di immagine che si consuma qui. Ti ricordi il discorso che facevo: un americano dipinge la Coca Cola, come valore per me Michelangelo è la stessa cosa nel senso che siamo in un paese dove invece di consumare cibi in scatola consumiamo la Gioconda sui cioccolatini.

Dal punto di vista tecnico, come son fotti questi quadri su Michelangelo?
Sono collages fotografici incollati sul legno, io poi su questi collages dipingo delle zone anche per assimilare l’immagine al fondo, proprio per non dare questo senso, che a me non interessa del collage.
Questa cosa la pensai nel ’63 a Parigi al Louvre vedendo la Grande Odalisca che poi ne ho fatto un quadro, cioè pensavo che un quadro quando piace, uno l’assume come assume qualsiasi altro oggetto: io guardavo questa Grande Odalisca e pensavo “questa cosa mi piace, potrei metterla in un quadro come potrei metterci una pianta, una macchina, una persiana”.

Come immagine trovata?
Mai come immagine trovata per caso, non è che uno fa un percorso casuale per la città e si serve delle immagini come un trovarobe. Uno deve seguire un po’ la sua vocazione, la sua storia.

L’ultimo che hai fatto ancora una trascrizione da Michelangelo, il “Peccato originale” della Cappella Sistina.
Sì, è del ’66, in questi ultimi mesi sono stato a New York e non ho fatto altro. In questo vi sono più colori perché è come se fosse un solo grande fotogramma, anzi un fumettone con parecchie figure, ma la struttura grafica del quadro e il modo di dare il colore hanno lo stesso significato che nei quadri precedenti.

G. De Marchis, Roma 29 marzo 1966

 

Che cosa succede nella sua anima (o nella sua mente) quando dipinge?
Niente di particolare. Chiacchiero, bevo, fumo: mi piace avere amici intorno. Insomma sono molto distaccato e preso al tempo stesso. Ma non vivo il quadro come un momento unico, drammatico.

Quale importanza hanno i ricordi nella sua pittura?
I ricordi hanno a volte molta importanza soprattutto per me che di fronte a una tela bianca subisco il fascino del “titolo”. Quindi forse più che di ricordi biografici in senso stretto operano nel mio immaginario le “ricordanze”, suggestioni di fatti epici, di miti mediterranei, di capolavori letterari, di esperimenti scientifici, ecc.

Quali sono i colori che l’attraggono di più? Per quale motivo?
Non so quale sia il motivo che sottenda le mie preferenze, ma indubbiamente prediligo l’azzurro e il nero soprattutto se abbinati insieme.

Ama conservare i propri quadri? Ama rivederli dopo un certo tempo? Quali emozioni le danno i dipinti del passato?
Purtroppo non ho mai avuto modo di conservare niente, però quando vedo i vecchi quadri sono molto emozionato: mi piace, in un certo senso, misurare il distacco tra l’ieri e l’oggi, cogliere il senso del mio itinerario. Alcune volte mi sembra di aver percorso anni luce, altre mi sembra di girare sempre intorno a uno stesso luogo e a uno stesso spazio mentale, anche se poi la tecnica muta.

Si considera un pittore di terra o un pittore di aria? Qual è la sua definizione di pittore?
Sono un pittore di terra, addirittura attaccato alle radici, al ventre del mondo.

Si considera un uomo tranquillo od un uomo agitato? Perché?
Sono mosso da inquietudini visionarie che riesco però a tradurre in una nozione di equilibrio, di calma, di classicità in senso ampio.

Ha mai provato un senso di angoscia? Per quali motivi?
Umanamente sono provato da grandi angosce. Anche per i motivi più futili. Sono comunque molto umorale e mi può capitare in una sola giornata di spaziare dall’euforia alla depressione. Senza mezzi termini. Raramente il vedere il sole la mattina mi provoca una sensazione di neutralità, mi sento sempre chiamato in causa nel bene e nel male.

La professione del pittore rende felici? Oppure è causa di qualche infelicità?
L’atto del dipingere essendo un atto creativo non può essere che felice ma, al tempo stesso, mette al di fuori dalla società. La pittura è alterità rispetto alla quotidianità, alla norma della comunità umana. E questo provoca infelicità.

Ha paura della vita?
No, non ho paura. Ma non ho paura neanche della morte.

Una delle accuse verso la vostra generazione è l’affinità con la scuola di New York.
Vorrei proprio dire che si tratta di affinità, forse affinità nei modi operativi, nel modo di guardare, mentre la scelta dei temi è molto legata alla propria città. La Pop Art è legata a New York, ma un certo tipo di sensibilità è una cosa generale che esiste a New York come a Roma: voglio dire che ogni generazione ha il proprio tipo di sensibilità. C’è un modo di guardare l’oggetto, pensa anche a Robbe Grillet, riguardo alla Pop Art, come sensibilità, non è una cosa americana: è americana l’immensa quantità di miti e di immagini usate dagli artisti di New York.

Hai detto prima che il collage nel senso classico non ti interessa.
Nel 1963 questo modo di usare il collage come protagonista del quadro non c’era, il collage era usato più nel senso dell’assemblage, dell’insieme di molti frammenti. In questo quadro che si chiama “Dalla creazione dell’uomo” c’è una doppia immagine, l’immagine fotografica, più obiettiva, più vicina all’originale che ho voluto contrapporre ad una immagine soggettiva, trascritta manualmente, ricalcandola con la carta velina, cioè ho voluto dare nello stesso quadro due modi diversi di prendere contatto con l’immagine.

In questi altri quadri ispirati a Michelangelo, che sono poi i recenti, hai abbandonato il collage.
Si, prima li disegno sulla tela bianca servendomi di un proiettore e poi dipingo a smalto.

E queste inquadrature?
È come creare un altro contesto individuando un punto del quadro e isolandolo, trattandolo diversamente; è un intervento, dato che col proiettore in fondo uno si limita solo a riportare l’immagine. Queste linee che fanno fedelmente parte della figura proiettata io non le guardo più rispetto alla figura ma le risolvo in una zona come una cosa astratta.

E questi quadri con scorci di cielo, nuvole e palline?
Li ho fatti nel ’65, sono i cieli newyorkesi: io i cieli li facevo già nel ’63, mi veniva proprio naturale inserirli in oggetti come le finestre e le persiane, poi li ho fatti come soggetto principale. Queste palline non hanno un carattere ironico anche se a New York in quel momento era talmente tutto Op che anche il cielo finiva per essere visto a palline, a strisce, a quadrettini. Direi che questi elementi diventano elementi grammaticali di un gioco, anche se uno mette un quadrato giallo vicino a un quadrato blu come in un’opera costruttivista. Poi ci sono questi riquadri che sono come fotogrammi, che creano pezzi diversi, diversi quadri nello stesso quadro, più contesti sullo stesso piano.

Che cosa rappresenta Roma per lei?
Una madre? Una matrigna? Un’amante? Giuda che tradisce? Il vento che spira sul Palatino e cinge di verdi foglie d’alloro la fronte del poeta? Come faccio a dare una definizione di Roma, luogo privilegiato di tutto il mio lavoro? Come ho detto, per me ogni giornata segue un ritmo mai scontato di “variazioni dell’anima”: Roma è il termometro di quegli sbalzi tra il cielo e l’inferno.

Che cosa vede nelle ombre? Che cosa vede nella luce?
Ombra e luce sono il risvolto della stessa medaglia: dipende da come si guarda e così anch’io, pittoricamente e metafisicamente, in alcuni momenti metto a fuoco certezze, realtà che mi sembrano solarmente tangibili, verità inconfutabili; altre volte scivolo nell’incerto, nello sfuggente, nel nero luciferino. Ma appunto, anche nella composizione del quadro non opero mai un’antitesi manichea, un giudizio morale. Ombra e luce sono la stessa cosa.

Un suono? Un profumo? Un nome?
A questa domanda dovrei rispondere facendo appello all’inconscio biografico: chiamo in causa le “ricordanze” del passato e allora Roma. Roma. Roma.

Alcuni suoi quadri raffigurano una porta od una finestra. Che c’è dietro quella porta? Dove si affacciano quelle finestre?
Come nell’Infinito leopardiano le mie porte e finestre sono un limite ed un’apertura al tempo stesso di natura puramente individuale e mentale. Ognuno coglie in se stesso la “finzione” del pensiero, ognuno fa naufragio dove più gli aggrada.

Che cosa la fa arrabbiare di più?
La mancanza di puntualità. In tutti i sensi, ovvero non è solo un orologio fisico che dà il ritmo giusto.

Che cosa pensa della malattia?
È veramente una tragedia o è forse la faccia ambivalente della salute? Dove finisce il sano e dove comincia il malato?

I tre desideri che vorrebbe realizzare subito?
Mare. Mare. Mare.

Dove vorrebbe vivere veramente?
Forse mi piacerebbe vivere in Costa azzurra, nel luoghi amati da Picasso.

Ha subito qualche torto nel corso della sua vita? Da chi? In quali circostanze?
Chi non ha subito torti? Meglio non ricordare.

Una macchina magica viaggia nel tempo. Nel passato o nel futuro? In quale epoca vorrebbe fermarsi?
Mi piace molto l’impero romano.

 

Com’è cominciata la tua avventura nel mondo dell’arte?
Ho esposto per la prima volta alla Salita, la galleria romana di Gian Tomaso Liverani con Angeli e Uncini. Inizialmente mi muovevo guardando molto il surrealismo americano, Matta, Tobey, poi anche De Kooning, e Pollock; dell’arte italiana non conoscevo quasi niente se non un po’ Balla anche perché lo avevo fotografato nella sua incredibile casa di via Oslavia.

Ti sta bene quando ti definiscono uno dei maggiori esponenti ‘della pop art italiana?
Qualcosa di vero c’è nel senso che mi ricordo come fosse oggi quando mi arrivò il telegramma di Ileana Sonnabend con l’invito da Sidney Janis a New York. Gli amici, i pittori che si riunivano da Rosati a piazza del Popolo, pensavano che fosse lo scherzo di un burlone. Invece no, era proprio vero: con Baruchello, Baj, Rotella e Schifano fummo invitati a rappresentare l’Italia alla prima grande mostra della pop art che si tenne appunto da Janis nel ’62. Tra gli espositori c’erano, per farti qualche nome, Oldenburg, e Dine. Fui presente con un Persiana, un oggetto in legno che mi perseguita di mostra in mostra, di Biennale in Biennale. Tutti pensano che Festa sia il pittore delle Persiane, e basta. Come se dopo non avessi più fatto niente.

Se è per questo il tuo nome legato indissolubilmente all’”operazione Michelangelo”: un’iconografia monumentale, l’iconografia dei professori di liceo, dechirée, fatta a pezzi spregiudicatamente in tele emulsionate (secondo la tecnica fotografica della solarizzazione) dipinte con colori acrilici da shock.
Spregiudicatamente? Che vuol dire? Per te è spregiudicato l’artista pop americano che elegge a status symbol della sua cultura la bottiglia della Coca Cola o il cartellone pubblicitario? Mi dispiace per gli americani che hanno così poca storia alle spalle, ma per un artista italiano, romano e per di più vissuto ad un tiro di schioppo dalle mura vaticane, popular è la Cappella Sistina, vero marchio del made in Italy. E poi mi ha sempre colpito quella diffusa e sottile ambiguità omosessuale…
Quanto all’uso di smalti violenti che negli anni ’60 ebbe il sapore intenzionale di un pugno allo stomaco vedo con piacere che il nuovo restauro della Sistina, a opera dei giapponesi, sta tirando fuori tinte brillanti e contrastanti che fanno impallidire le mie. Comunque più in generale il mio rapporto con Michelangelo è un rapporto di plagio. Perché l’arte è plagio”.

Spiegati meglio.
Credo che l’arte sia una specie di catena di Sant’Antonio che prende le mosse dal primi graffiti degli uomini primitivi sulle pareti delle caverne: solo che invece di scriver lettere gli artisti rubano l’uno all’altro, di padre in figlio, di generazione in generazione. E il loro furto è trionfalmente legalizzato, onorato e mercificato in soldi dalla società civile. Pensa a un grande come Pablo Picasso, uno che ha spaziato e sperimentato in innumerevoli direzioni: se guardi la sua fotografia realizzata da Cartier Bresson, e spii attentamente i suoi occhi ardenti di andaluso, vi scorgi il brillìo luciferino della Criminalità pura.

Ah, ma allora ti piace fare il teorico, sei il più intellettuale degli artisti della tua generazione, quello più lucido ma anche quello più scansafatiche quando si tratta di tradurre un’idea in un quadro…
Non mi piace essere etichettato come artista di successo, il che vuol dire avere un regolamentare studio con targhetta fuori della porta (magari con l’indirizzo sull’Art Diary) e star lì, circondato da conventicole di “negri” o invasati ammiratori, a menar pennellate con fare ispirato e le reni martoriate per correre poi, appena trilla il telefono, a rispondere in modo efficiente e garbato a collezionisti, galleristi, critici. No, a me piace “compiere il delitto” in luoghi promiscui, tra i vicoletti di Roma, e poi, riempite le tasche con quello che basta per vivere una giornata, darmi rapidamente alla fuga come un vero e proprio colpevole. Che vuoi, i soldi pesano, sono ingombranti soprattutto per uno che ha una figura corpulenta come la mia e se mi metto a fare dieci, venti quadri su una sola idea perdo la leggerezza, la fluidità dell’astuzia mercuriale. Per farti un esempio, nel ’64 feci due quadri, uno da Magritte e uno bellissimo da Carrà, intitolato proprio L’amante dell’ingegnere: pensati-realizzati-svenduti, in men che non si dica. Su queste “citazioni”, invece, ci sono artisti come Sandro Chia che ci costruiscono un intero lavoro e un intero patrimonio.

Dimmi la verità, sei invidioso dei successi della Transavanguardia?
No, come potrei essere invidioso di persone che mi sono care e che stimo? Solo penso con un po’ di rammarico a quello che poteva essere e non è stata l’America per noi artisti degli anni Sessanta. Quando bazzicavo gli States, e li bazzicavo soprattutto perché avevo una bellissima fidanzata che si chiamava Barbara, ero diventato amico di Oldenburg e di Ben Birillo, il grande mercante della pop art.
Ci fu anche Alan Stone che mi propose una grande mostra, ma rifiutai, messo su da certi collezionisti romani che lo giudicavano un cialtrone svaccato. Ma l’osso duro era Castelli, altero e sussiegoso, che mi fece capire che era meglio “smammare”. Lo capisco anche: la pop art è stato il primo movimento originale della pittura americana, andavano orgogliosi dei loro “campioni” finalmente liberi della sudditanza nel confronti della cultura europea, non volevano intrusioni. Negli anni Ottanta, invece, il clima è cambiato e la Transavanguardia ha avuto successo non solo perché operazione ben orchestrata dal trio Mazzoli-Sperone-Bonito Oliva, ma perché gli americani avevano bisogno di un input per riscoprire e tirar fuori dagli scantinati i loro “realisti” degli anni Trenta.
Adesso, a mano a mano che danno la stura al depositi muffiti, i “nostri” vengono ricacciati indietro. Per parte mia ricordo con molta tenerezza, con molta malinconia i tentativi ingenui e maldestri di conquistare l’America. Mi rammento ad esempio quando con Mario Schifano facemmo il viaggio coast to coast in bus, perché così avevamo letto nel breviari degli scrittori hippy. Fu un viaggio scomodissimo ed interminabile e Mario sovreccitato mi petulava: “Ah Tano, ma davvero andiamo a Mexico City?”. Ci arrivammo per davvero e Schifano girò un documentario in cui appaio sempre di sbieco avvolto in un grande impermeabile con la mia facciona ridente e bonaria da romano provincialissimo (è una delle “chicche” che si deve sorbire chi va in pellegrinaggio culturale al suo studio).

Mi parli di Mario Schifano, ma chissà quanti ricordi hai anche del sodalizio con Franco Angeli. Ma allora è proprio esistita la “scuola di piazza del Popolo”.
Già, anche con Franco abbiamo fatto splendidi viaggi e starei qui a parlarti delle ore di quando andavamo a Positano caricando in macchina la Morante che era una rompiballe e voleva sempre scendere… Però è ora di dargli un taglio a questa storia del “trio Lescano” in quanto tutti siamo cresciuti e abbiamo preso strade diverse. Piuttosto che di scuola di piazza del Popolo, il che presupporrebbe un’unicità di intenti artistici e di stile, io direi che al caffè Rosati negli anni Sessanta i diversi pittori che lì si radunavano sperimentavano una nozione felice, etica, della libertà artistica.

Vagabondaggi, forzose tappe in galera o all’ospedale: la tua figura ammantata di un certo folklore…
Che tira soprattutto in provincia… Il mio modo di essere un artista moderno è travisato grottescamente. Pazienza, comunque non nego che i miei frequenti straniamenti d’identità mi abbiano provocato non poche disavventure dalle quali spesso e volentieri mi ha sollevato affettuosamente Renato Guttuso. Voglio anche ricordare l’appoggio e l’amicizia di Giorgio Franchetti e di Mario Schifano.

Antonella Amendola, 1986

 

 

AUTORITRATTO POSTUMO DI TANO FESTA di Dimitri Buffa

 

Nella galleria romana di Francesco Soligo, il pittore Tano Festa si lascia intervistare da Dimitri Buffa. È il maggio 1987: uno è un grande protagonista dimenticato della pittura italiana; l’altro, un ammiratore con il registratore in mano. Dopo la morte del pittore il 9 gennaio scorso, Buffa chiede spazio, nella speranza che questa intervista possa rimanere come il “ritratto di un pittore con una grande anima”.

Tano Festa, come è iniziata la tua avventura nella vita e nell’arte?
“Sono un pittore. Nato a Roma e perciò cattolico, apostolico e romano. Anche se sono in troppi a dirlo. La mia carriera inizia ufficiosamente da bambino. Mi ci ha spinto mio padre che dipingeva per hobby; ufficialmente ho iniziato ad esporre in una collettiva con Angeli, Festa, Schifano e Uncini. Io appartengo a quella che fu, a torto, definita “pop art” italiana. Ora, quello che noi facevamo era popolare, non pop. Gli americani erano “pop artist” perché raffiguravano oggetti di consumo veri e propri come simboli artistici da cui trarre l’ispirazione. Noi italiani siamo stati “popular” perché siamo riusciti, viceversa, a consumare l’arte stessa con le citazioni e le estrapolazioni, come quelle fatte da me sui frammenti michelangioleschi del Giudizio Universale. Jasper Johns, Oldenburg e Wahrol potevano invece bene esprimere l’arte con la bandiera americana, con i barattoli di zuppa e con i pennelli in bronzo. Quegli oggetti più che altri rappresentavano la cultura americana ed era logico e giusto, per loro, enfatizzarli. Ma io dovevo fare i conti con Leonardo e Michelangelo, non mi potevo mica inventare niente”. Che importanza ha avuto, per te, la figura di Andy Wahrol? “Per me il suo periodo più valido rimane quello in cui rappresentava i travestiti negri, gli omosessuali da strada in cui coglie proprio il senso dell’America di quegli anni, tra mito e disperazione. Sono poi gli stessi personaggi che non a caso Lou Reed evocherà in quella canzone, Take a Walk in the Wild Side, che tu sai quanto mi piace, come del resto tutta la musica dei Velvet Underground”.

Ma quali sono state le tue scelte più importanti?
“È giusto chiedermelo, visto che poi, in definitiva, si parla di me. Dunque, come ti dicevo, gli italiani rovesciano il metodo americano. E così Festa parte dal particolare del quadro di Michelangelo e Schifano da quello di Leonardo. Nel 1962 con gli Albinoni, scultore in legno colorate in nero e oro, che ha Franchetti (il collezionista che più di ogni altro ha creduto nel pittore scomparso, standogli vicino fino all’ultimo), io mi immedesimo in un chierichetto in chiesa. Nasce così, in me, l’idea di benessere legata al cattolicesimo e, per questo, decido di consumare l’arte di Michelangelo. Ma in quella generazione credo di essere stato il solo a capirlo fino in fondo. Adesso tutti parlano di me solo in relazione a quelle persiane che mi perseguitano di Biennale in Biennale. Però io ho fatto dell’altro e continuo a fare altro, come puoi vedere dai quadri qui intorno. In me, forse, hanno influito Matta, Tobey, De Kooning e anche Pollock. Ma è nel 1962 che inizio a fare arte popolare. Fondamentale fu l’invito di Sidney Janis a New York per quella mostra che si chiamava “The New Realism”. Come me c’erano Schifano, Baj, Rotella e altri, che adesso non ricordo; quello che ricordo è che nessuno di noi voleva credere a quell’invito. Pensavamo fosse uno scherzo. Nel 1964 arriva la prima Biennale di Venezia dove viene esposta (per la prima volta) una delle mie persiane che poi, come ti dicevo, ha continuato a perseguitarmi anche in seguito. Era l’anno della morte di Morandi”.

E gli anni Sessanta? Cosa simboleggia l’onnipresente Angelo di Norimberga?
“Doveva sfatare questo mito italiano, già mutato dall’Umanesimo, del tedesco d’acciaio,nazista forse inconsapevole, gotico. L’angelo si rifà alla cattedrale, ma anche al processo di Norimberga. Come quando ho ridipinto la Creazione pensavo ad Eva, ad Adamo ma anche a quel poveraccio del serpente”.

Qual’è la spinta interiore dell’artista Tano Festa? La visione?
“Ora dipingo in maniera più figurativa. Questi quadri che vedi nascono da un’intuizione, un’immagine della storia o magari da un film che guardo in televisione e poi sogno. In questo preciso momento tutte le mie opere nascono così. Sono i fantasmi della mia cultura e, soprattutto, le immagini che mi bombardano il cervello tutti i giorni, dal teleschermo. Figurativamente mi colpisce molto Ligabue, ma anche la pittura dei guatemaltechi”.

Qualcuno ti ha definito come l’ultimo dei pittori maledetti. Ti ci vedi?
“No, io sono un errante. Prima viaggiavo moltissimo ma ora, con questa salute che mi ritrovo… Abito al Portuense, solo, con mia madre e mia sorella. Lo studio non ce l’ho, dipingo in galleria da Francesco Soligo e quei pochi sprazzi di lucidità che non uso per dipingere, li destino all’organizzazione economica. Ma questa storia dell’artista maledetto è un’invenzione, o forse una convinzione, del buon Franchetti. “Festa si autodistrugge, Festa di qui, Festa di là”, mi ha voluto cucire addosso ‘sto personaggio, tanto che mi devo ricordare, se lo incontro, di dirgli di pensare ai fatti suoi. Pensa ai fiori di Gauguin: io non ne ho mai fatto la copia”. Non ti meravigli del successo all’estero dei tuoi colleghi più giovani, penso alla Transavanguardia, tu che, per una ragione o per l’altra, in America non hai mai sfondato? “No, non mi meraviglio affatto, perché io Cucchi, Chia e gli altri li stimo e li ammiro e li conosco bene fin da quando dipingevano per centomila lire a quadro. Alla fine sono stati solo un po’ più fortunati di me. Pensa che io nel 1967, mentre stavo negli Stati Uniti, ho dovuto smontare tutta una mostra e riportarmi le tele in Italia perché il mio gallerista morì all’improvviso. Mi dovetti riprendere le opere perché, mi fecero capire, era meglio che me ne andassi. A Roma quei quadri li ho poi esposti alla mostra intitolata “Michelangelo according to Tano Festa”.

Come influiscono le tensioni della società nella tua pittura? Come dovrebbe essere per te l’atelier di un artista?
“Le immagini sono troppo spinte in avanti rispetto alla realtà.

La pubblicità, i computers: si sta superando il livello di guardia. Fondamentalmente dipende anche da chi sta dietro alla macchina. In fondo anche Molinari aveva la mania della cibernetica. Io però, non sono giapponese. Poi mi parli dello studio: ti ho detto che non ce l’ho più. Ma se l’avessi, dovrebbe essere come un grande giocattolo psichedelico con la musica dei Genesis e dei Pink Floyd”.

Cosa ha fatto lo Stato italiano per pittori come te?
“Fin troppo aperto nello spalancare le porte delle galere. Anche io ho avuto le mie colpe, sono un provocatore, ma non pensavo di meritarmi le manganellate che mi diedero qualche anno fa a Piazza Navona, perché non avevo i soldi per pagare il ristorante Tre Scalini. I miei debiti li ho pagati. Una volta, fu solo grazie a Guttuso se riuscii ad uscire dal carcere  di Palermo; un’altra volta ero finito dentro a Catania, perché ero scappato con una macchina rubata, per scherzo, nel cortile della Rai a via del Babbuino. Dentro c’erano i documenti di un giornalista francese: mi prese il raptus di identificarmi in lui. Quando mi arrestarono, recitai la parte del giornalista francese e scrissi anche a mia madre dicendole di rivolgersi all’ambasciata di Francia perché ero prigioniero a Catania. Solo quando chiesi i colori per dipingere qualcuno si insospettì e chiamò la questura di Roma che mandò un ispettore in Sicilia per identificarmi. Anche quella volta lì, se sono uscito, lo devo a Guttuso. Fosse dipeso da me, mi sa che buttavano via la chiave”.

C’è qualcosa d’altro che vorresti dire?
“E che ti devo dire? Chiamami un tassì che devo andà a Campo de’ Fiori. Spero che questa sia l’ultima intervista”.

Dall’intervista di Dimitri Buffa pubblicata su “Il Venerdì di Repubblica” n. 16 del 12 febbraio 1988

 

 

Dario Bellezza “Per Tano Festa”

1982

 

Non vorrei mai che fra i miei (tanti) rimorsi i rimorsi che aiutano a vivere, dolcissimi nel ricordo come uno schiaffo immeritato, si cristallizzasse anche un testo non scritto per Tano Festa.
Ho conosciuto Tano tanti anni fa all’epoca del suo fulgore e del suo successo- subito allora come per l’oggi valgono altre leggi sottratte alla legge feroce del Tempo. Poi, appunto, per tutti il tempo è passato: Navona e Campo de’ Fiori folgorati da un Dio maligno sono diventati fondali di cartapesta e la vita è fuggita via come la sterile giovinezza: Tano è nella fedeltà a se stesso, diventato un altro, come persona intendo, perché il pittore- poeta è ancora lì consumato ma vivo e incolume che arde una sua disperata rivolta di uomo ironico e buono. Ci tengo a sottolineare “buono”: perché fa giustizia non tanto della sua vocazione passiva al contrario con i suoi vizi e le sue virtù, ma perché coglie un dato supremo del suo dipingere per visione e allucinazione: il rispetto sacro della Realtà.
Potranno sembrare queste mie, in  epoca della Critica, della Signora Critica che uccide la verità, e dove i critici soloni di spago promuovono non-pittori alle Cattedre del Sogno, celesti e libere, parole appunto prive di senso comune, banali: non lo sono per chi provato da una vita “vera” decide di riscattarla nella poesia sublime delle immagini strappate alla morte quotidiana: quella poesia vecchia, antica, necessaria e urgente degli infermi e dei pazzi.

 

 

Arturo Schwarz “Un ricordo di un dolce e schivo Tano Festa”

 

Un giorno freddo del 1962 venne a trovarmi, nella mia galleria di via Gesù, un giovane con una grande cartella piena di dipinti a smalto su carta. Era Tano Festa, molto timido e impacciato.
Dietro la sua riservatezza si nascondeva un essere colmo di vita e d’entusiasmo.
Fui subito conquistato e l’anno seguente, nel maggio del ’63, gli allestii una personale con una decina di pannelli di legno di grande formato.
L’iconografia era del  tutto innovativa, s’ispirava alla morfologia di persiane, armadi, porte, pianoforti, specchi e lapidi. I titoli erano evocativi, tra gli altri: Omaggio a Vermeer (1962), Studio per pianoforte (1963) e dello stesso anno: La sala degli specchi, Le Stanze del Vaticano, La camera rossa. A giusto titolo, Cesare Vivaldi poteva scrivere nella prefazione al catalogo, “il lavoro di Tano Festa è uno dei più definiti e dei più interessanti nel quadro delle ricerche artistiche dell’ultima generazione, in Italia e fuori”.
Tre anni dopo allestii una sua nuova personale (dal 5 al 31 marzo 1966), questa volta i pannelli di legno erano diventati quadri – su legno o tela – a volte con collage. In proposito Maurizio Fagiolo scrisse l’introduzione al catalogo ricordando, tra l’altro, le tappe dell’evoluzione del nostro artista. Dopo la sua prima mostra, nel 1961, alla galleria La Salita di Roma , dove Festa aveva esposto una serie di superfici monocrome di grande rigore formale, l’iconografia di Festa, tra il ’62 e il ’63, prendeva spunto dai temi che furono oggetto della nostra prima mostra del ’63.
Fagiolo notava inoltre come le trentaquattro opere di questa nuova antologica erano contraddistinte da un “nuovo rigore costruttivo” e che non erano “evocazioni di tono impressionistico, ma diagrammi statistici della natura”. Personalmente consideravo questi dipinti una manifestazione tra le più significative della ricerca estetica di quegli anni. In questi nuovi lavori Festa si soffermava in particolare sui maestri della tradizione  italiana e del Rinascimento. Tra questi il favorito era il Michelangelo della Sistina e delle Cappelle Medicee: Particolare della Cappella Sistina (1963), La testa di Adamo (1963), Da Michelangelo, Particolare delle Tombe Medicee (1965), furono tre tra le opere esposte.

 

 

Antonella Amendola “In nominibus sunt res, L’enigma del nome”

Roma, febbraio 1992

 

Tano Festa amava dire che la sua vita era segnata fin dalla nascita dall’ambiguo potere della contraddizione. Nacque infatti il 2 Novembre 1938, data coincidente con la festa dei morti; che non può certo considerarsi momentus di vitalità, per la nostra cultura che relega i defunti in una zona incoffessabile, altra dal quotidiano sempre improntato al giovanilismo e all’esorcismo della fine.
A Tano piaceva molto un romanzo di Malcom Lowry, etilista maledetto, dal titolo “Sotto il vulcano”, ambientato a Cuernavaca in Messico nel giorno dei morti: durante il quale i paesani “festeggiano” sulle tombe con cibi, giochi, luminarie. E la morte non demonizzata arriva a strappar via le ultime certezze occidentali di un uomo, un console minato dall’alcol, che ha scelto il palliativo del sogno, dell’ebbrezza per sopportare la rigidità della vita.
NeI suoi quarantanove anni di vita Tano si è comportato un po’ come il console di Lowry: la quotidianità era per lui insostenibile. Insostenibile anche lo status d’artista con tutto quello che comporta; prepotente invece la suggestione ad abbandonarsi al proprio “nome”, alla propria contraddizione, ad un destino di fantasia, che Tano si è andato costruendo con l’uso del proprio corpo, con la propria avventura terrena come materia teatrale.
Quando Tano nasce il 2 Novembre suo padre Vincenzo, ragioniere, sarto, pittore dilettante e sua madre Anita Vezzani, casalinga romagnola piena di temperamento anarchico e di passione, hanno già avuto nel 1935 un figlio.
Poiché Vincenzo e Anita non sono sposati i due bambini vengono registrati all’anagrafe in maniera impropria. Il primo dei due, Francesco, risulta essere il figlio dell’ufficiale di marina Paolo Lo Savio, marito per legge di Anita e di Anita stessa. Il secondo dei due, Gaetano viene attribuito all’anagrafe a Vincenzo Festa e alla di lui legittima moglie Ruggiani Angela.
In pratica, quando Anita partorì Tano, dichiarò false generalità e si spacciò per la moglie di Vincenzo. Ecco dunque servito in famiglia, su un piatto d’argento, il moderno dramma della identità. Nel cui crogiuolo Tano si trovò calcato alla perfezione, per la sua natura istrionica che quasi si compiaceva dei pirandelliani dati biografici. Va aggiunto inoltre, che il nome Gaetano fu imposto al piccolo in ricordo del valoroso tenente Gaetano Festa, fratello del padre, medaglia d’argento al valore militare, morto durante la prima guerra mondiale quasi per uno scherzo del destino: una sostituzione di persona. Aveva infatti preso il posto di un commilitone intimorito, e finiva i suoi giorni su di un campo minato, per generosità e altruismo.
Gaetano Festa primo, quasi una goccia d’acqua del secondo, così come appare dalla fotografia conservata nella casa dei cugini Panelli, divenne post mortem capitano, e a ricordo del suo sacrificio c’è oggi quel “nome” nell’ossario di San Martino della Battaglia.
Tano Festa non seppe resistere alla tentazione romanzesca implicita nel suo venire al mondo e il giuoco con la vita gli fu a volte lieve, ironico a volte pesante, luttuoso.
La sua poteva essere la commedia di un uomo molto intelligente, un intellettuale smaliziato. Divenne invece dramma dopo la morte del fratello Lo Savio.
C’è un prima e un poi nel destino di Tano. Prima della morte di Francesco a Marsiglia. Dopo la morte di Francesco a Marsiglia. Cosa fu la morte di Francesco a Marsiglia? Mancò il “nome”. Francesco suicidandosi in un albergo ebbe cura di distruggere la confezione, quella che conteneva le pillole letali. I medici non lo poterono salvare perché non poterono conoscere il nome del preparato con cui si era intossicato. Tano, così mi raccontò, rimase giorni e giorni, forse diciotto al capezzale del fratello moribondo. Si allontanò solo quando i medici gli dissero che c’era un certo miglioramento. Fece appena in tempo ad arrivare in albergo e ad infilarsi sotto la doccia per scrollarsi la stanchezza che gli telefonarono dall’ospedale: “Venez: votre frère est très fatiguè”. Francesco era morto.
Dopo la morte di Francesco Lo Savio, artista di grande rigore formale per i suoi lucidissimi studi sullo spazio definito dalla luce mediante sofisticati artifici, Tano ebbe l’amara rivelazione che l’arte non salva dal quotidiano, lo status dell’artista non è magico, lieve, ma gronda dei grevi lacci e lacciuoli del sistema dell’arte. Si può venire uccisi dal sistema dell’arte, com’era accaduto a Lo Savio le cui mostre erano state boicottate dall’indifferenza e lui consapevole di sé ne aveva sofferto al punto da contrarre un terribile esaurimento nervoso.
Tano, colpito dalla tragedia, comincia a demonizzare il mercato dell’arte e il danaro; assume atteggiamenti provocatori e anarchici, accoglie un suo viatico personale, fatto di avventure della fantasia, di vagabondaggi notturni, d’incontri stravaganti con personaggi al limite della legalità; sperimenta la galera e viene più volte ricoverato in ospedale.
Il mondo dell’arte lo dà per spacciato, fiorisce su di lui un’aneddotica folcloristica di bassa lega. Pochi capiscono (tra questi pochi Giorgio Franchetti, Renato Guttuso, Francesco Soligo) che l’artista ha scelto il suo inferno volontariamente e che il suo è un percorso catartico.
Festa aveva reciso ogni rapporto fiducioso, eroico con il progetto dell’arte la cui quotidianità gli è parsa insostenibile: troppo prosaica, troppo poche vie di fuga dal fantastico.
Meglio allora inventarsi un destino, cercare l’etimo, inverare il “nome” in un intreccio romanzesco dove fiorisce la poesia, i quadri diventano indizi, la morte non è più accidente patito ma affettuoso, partecipe abbraccio della vita.

 

 

Giorgio Franchetti “L’enigma Tano Festa”

luglio 1994

 

L’irripetibile Tano Festa incomincia poco dopo la morte nel gennaio 1988 il traghetto verso la fama. In verità avviata con la mostra retrospettiva organizzata per il giugno di quell’anno negli  spazi a Porta Pia in Roma, già Birreria Peroni, da un’idea di Luciano Pistoi, Achille Bonito Oliva e Paolo Sprovieri. E durante trent’anni di lavoro non era stato mai ritenuto degno di una pubblica personale, ad eccezione di alcuni quadri in tre in Biennali a Venezia e di quella straordinaria tenutasi ad Aosta nella Tour Fromage nel 1986, alla fine della sua vita.

Il suo percorso è singolare, nella vita come nell’arte. È dirompente come il rumoreggiare del tuono in sottofondo dei lampi nel mitico incalzare delle filosofie dell’arte che con le scariche di Burri e Fontana misero in corto circuito lo scenario delle arti figurative italiane.
A partire dal minimalismo analitico geometrico di Piero Manzoni del 1957 con le sue tele rilevate da ordini di pieghe e tele cucite a quadrati, del 1958 riquadri di panini marchiati dai pentagoni nelle rosette, e le serie ripetute dei cilindri nei rotoli di sono ovatta; ed il confronto ad antitesi fra cilindro e parallelepipedo di quegli artefatti manuali che nella pratica del quotidiano riescono spontaneamente, automaticamente, quasi inevitabilmente in forme geometriche, come i pacchi: o rettangolari o cilindrici. E quanto altro mai in tutto il suo sperimentare su natura e cultura, natura e geometria, a culminare nello «Zoccolo del Mondo». A partire altresì dal minimalismo concettuale di Lo Savio, che scaturisce, pervenendo alla sublimazione della  forma, dalla pura idea luce. A quello razionalista di Castellani dove lo spazio articolato dal disporsi in ordine ritmato dei punti e di ombra-luce creati con i rilievi sulla superficie delle tele, si presta alla costruzione di artifici in geometrie variabili all’infinito. All’azzeramento saturo di ideologia di Franco Angeli, praticato ricoprendo con veli vagamente trasparenti i simboli riconoscibili della storia vissuta dalle generazioni di questo secolo. Alla traslazione del soggetto, operata sulla base minimale del colore puro, da esperimento concettuale a voluttuoso piacere dell’occhio, nei monocromi di Mario Schifano. E al minimalismo emblematico di Kounellis nei suoi segnali estrapolati dal sistema occidentale dei segni della numerazione e della scrittura; a quello delle strutture individuato da Giulio Paolini nella forma primaria dei mezzi base con cui si praticano la pittura, la scultura, l’architettura. Festa è coinvolto in tutta l’articolata e vasta sperimentazione che darà in quegli anni peso storico capitale all’avanguardia in Italia. Essendo fondatamente un poeta, non può praticare un azzeramento totale come altri citati poterono, neppure ai suoi inizi nel 1960. Che nel suo operare ancorché impregnato di radicalismo primarista, aleggia tuttavia il sentore della materia storica e letteraria sedimentata nella cultura genetica degli artisti. Quindi il rosso effuso (dell’affetto?) nel monocromo del 1960 dedicato a Raffaele, il mignon del poeta Sandro Penna, ed il verde erba dell’Irlanda nel monocromo del 1961 dedicato a Joyce. Il nero e l’oro del barocco romano nelle canne da organo, struttura primaria intitolata «Albinoni» del ’62.
Suggestioni trasgressive? L’opera, la vita, la stessa nascita di Tano sono segnate dalla trasgressione. Festa non può mai negare la Pittura. Neppure quando nel 1962, dopo aver meditato acutamente sul quadro di Van Eyck «I coniugi Arnolfini», ove la fragile umanità degli sposi è sovrastata dall’incombente geometria del lampadario, oggetto emblematico, immobile, eterno; pensò «di ricostruire degli oggetti che fossero mutilati delle loro funzioni, oggetti che nelle loro fisicità esprimessero una sottile inquietudine di fronte alla loro troppo facile e certa presenza, un senso di ambiguità e d’impotenza di fronte al loro essere fisico inorganico, ottuso, e ancora un senso di mistero e di impenetrabilità nelle loro fredde e oscure geometrie».
Di qui vennero alla ribalta quei suoi oggetti così riconoscibili, ed ormai riconosciuti, fatti dal 1962 al 1965 in maggior numero, e successivamente: gli armadi con specchio, e con cielo, le finestre, i pianoforti, gli obelischi nelle loro ottuse  forse, ma di certo oscure e misteriose geometrie. Mai fredde anzi accese dalla pittura con il colore a smalto e con i toni caldi dei neri e dei rossi, delle tinte ad acqua delle sue porte, delle persiane, dello «Studio per pianoforte».
Con il colore, quegli oggetti fuori contesto subito si imposero all’attenzione del sistema dell’arte, per usare un luogo comune. Ma il loro totale estraniamento da ogni possibile uso, memoria, contesto; l’essere totalmente nella pittura non li riconduce di diritto inevitabilmente all’aura della metafisica dechirichiana?
Storia e trasgressione, le prime componenti esistenziali dell’artista saranno sempre nel fondo del suo lavoro. Traversato occasionalmente da turbe schizofreniche, rivelate nella vita da bizzarre sostituzioni di personalità. Come quando in un periodo di anni successivo alla mostra «Vitalità del negativo» montata a Roma da Achille Bonito Oliva, con l’appoggio di Graziella Lonardi, la brillante promotrice napoletana dell’arte contemporanea che all’epoca viveva con il principe Aldobrandini, Tano Festa aveva metabolizzato codesto personaggio identificandovisi al punto di fare dei pagamenti con propri assegni firmandoli Gaetano Aldobrandini.
«Ognuno dei veri artisti percorre una linea molto sottile fra sanità e follia» dirà alla giornalista Anselma dell’Olio che lo intervistava a Fregene nell’agosto 1987, pochi mesi prima della sua morte. La storia è il deposito inesauribile dal quale far uscire i soggetti più emblematici e necessari.
Tra i più istituiti le immagini tratte dagli affreschi di Michelangelo in Vaticano e dalle Tombe Medicee. La trasgressione è insita nell’atto di scompaginare le composizioni di soggetti mitici nella storia dell’arte, come «La creazione dell’uomo», «Dal peccato originale» con Adamo ed Eva etc. per ricomporli arbitrariamente in imprevedibile spaesamento di immagini e di colori.
Sempre da quell’intervista: «Conosci la serie sulla Cappella Sistina» chiede Tano, «quando li ho fatti volevo smontare il capolavoro, massacrarlo, saccheggiarlo». Ma gli accostamenti ad arbitrio di campiture monocrome delle figure contornate, riprodotte con il proiettore e dipinte negli anni Sessanta con smalti dai colori brillanti, squillanti, ci danno anche un Michelangelo rivisitato, il primo degli «Antenati». A presagio quasi del Michelangelo quale riappare oggi dopo l’immane restauro della Cappella Sistina, a recupero del loro stato di origine.
Storia e memoria, mistero e monumento alla soggiacente permanenza della morte, ed ironia che la esorcizza, sottendono la sua opera rivelati da caratteri immanenti.
Ecco il nero, quasi una dominante nel suo lavoro; ecco il deserto, più che metafisico nei suoi «Monumenti italiani», con le statue a contemplare piazze spopolate, le silenti cattedrali, i palazzi spettrali nelle tele emulsionate degli anni fra il 1976 e il 1981; e le figure terribili degli «Ignudi» dal Giudizio Universale in quelle del 1987. Ecco l’enigma dei suoi rebus del 1977.
Infine negli anni Ottanta la sequenza tragica ironica dei personaggi strafatti, penetranti, assoluti, che lui nomina «Ritratti degli antenati», accomunandoli nel rigurgito ilare o truce della sua memoria storica e della sua cultura; dall’infanzia da chierichetto nelle sacrestie, ad una maturità di genio quasi barbone, esorcizzante col nomadismo entro le mura della sua città, qualsiasi tentativo di aggruppamento, qualunque omologazione.
Ecco i rossi alti prelati in cattedra, e i neri stralunati preti di parrocchia.
Ecco la sequela dei metacentauri Don Chisciotte negli «Omaggi alla Catalogna», ed i travolgenti ritratti, veri e immaginari, le mascherine, gli angeli girovaghi e barboni, e James Joyce, e Nausicaa in varie e diverse versioni, la mitica Virginiana, il Barone rampante, i Guardiani del castello, i personaggi emblematici di «Tindari», e di «The Castle», la processione dei lebbrosi in «Dedicato a Igmar Bergman». Ed i rifacimenti esaltati nel grottesco di classici come «L’entrata di Cristo a Bruxelles» di Ensor, o nel tragico come nella «Danza della vita» di Munch. E via di seguito la cavalcata dei personaggi sgorganti innumeri dal suo immaginario, quasi come gli invitati alla festa nella loro casa a Mosca scaturiscono in folla dalla bocca del caminetto nel «Maestro e Margherita» di Bulgakov.

 

 

 

 

Copyright © Archivio Tano Festa.Tutti i diritti riservati.